KEITH FLINT DEI PRODIGY
Keith Flint è morto. La notizia passerà in fretta e in molti diranno, giustamente, che sono ben altri i musicisti da compiangere. Ma io no.
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Avevo undici anni quando comprai la cassetta "Danceteria 2". Era una compilation di elettronica molto tamarra mixata da Fargetta e Molella, piena di suoni acidi, campioni presi da ovunque e intrisa di una sensazione d'ansia a metà tra rave e apocalisse.
C'era un pezzo che mi faceva volare più di ogni altro: si chiamava Everybody in the Place e l’artista era accreditato come The Prodigy.
All’epoca, prima di Internet, era dura avere informazioni e si poteva solo sperare nei negozi di dischi, che però non solo non avevano nulla di questo Prodigy, ma non sapevano neanche se esistesse un album intero.
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Passarono un paio d'anni e trovai il cd di Music For The Jilted Generation in un negozio. Scoprì che quello che credevo un produttore era in realtà una band.
I Prodigy divennero il mio gruppo preferito e mi convinsero definitivamente di quanto fosse stupido limitare la musica a un genere di appartenenza: l'energia e la personalità potevano legare cose all'epoca molto ghettizzate (almeno in Italia) come punk, hip-hop, metal ed elettronica. Nacque anche l'idea di fare elettronica non come singolo ma come gruppo.
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Avevo ancora dei dubbi sui rispettivi ruoli dei Prodigy. C’era Liam, mente e fautore di tutte le musiche. C’era Maxim, che cantava in Poison. E dal vivo c’erano due ballerini: uno altissimo, di nome Leeroy Thornhill e un altro davvero strano.
Quello strano si chiamava Keith Flint. Lo consideravo di gran lunga il membro più inutile dei Prodigy.
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Ma un giorno piovoso del 1996, la televisione mandò qualcosa che arrivò come un pugno nello stomaco. Era il più bel pezzo che avessi mai sentito, con il video in bianco e nero più potente della storia: non c'era ancora nulla che suonasse come
Firestarter. E la cosa più incredibile era che a cantare non era Maxim, ma Keith. Quello strano e inutile ballerino si era trasformato in un Johnny Rotten del futuro: scattoso, selvaggio, anfetaminico. Mi innamorai perdutamente di quel sound e di quell'estetica.
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Fino a quel momento, ingenuamente, credevo di essere l'unico ad amare i Prodigy. Ma pochi giorni dopo, uscendo da scuola, vidi in edicola qualcosa che mi fece quasi venire un infarto: Keith Flint era sulla copertina di una rivista, con appena a fianco Renton di Trainspotting. Il titolo era una roba tipo “giovani tossici e prodigyosi”.
Da quel giorno iniziai a comprare Rumore e lo feci per almeno cinque anni, mentre i Prodigy diventavano via via più famosi. Si faceva fatica ad andare a una festa e non ritrovarsi a ballare Out of Space – anche se era un pezzo del primo disco, che io adoro. Alcuni fan della nuova ora pensavano che Prodigy fosse solo uno pseudonimo di Keith, almeno finchè Breathe non spopolò e tutti capirono che era solo uno dei due cantanti di questa singolare, innovativa formazione inglese.
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Smisi progressivamente di ascoltarli, un po’ per snobismo underground (che fortunatamente ho perso), un po’ perché non mi sembrava che le nuove produzioni fossero così interessanti. Certo, Smack My Bitch Up era una bomba, ma quello che dovevano dire, secondo me, l'avevano già detto.
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Nel 2009 andai a vederli allo Sherwood Festival e, quando il concerto finì, più che sudati parevamo appena usciti dalla doccia. L’energia che Keith riusciva a scatenare dal palco era incredibile, nonostante gli anni passati.
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Poco fa è squillato il telefono e Martino mi ha chiesto se sapevo di Keith. Me l'ha chiesto così, come se fosse un amico. So che è una cosa stupida, ma ci sono stato male, molto più che per musicisti certamente più importanti e significativi.
Non seguivo più i Prodigy ma ancora oggi, dentro di me, c'è un piccolo Keith pronto a scatenarsi e fare linguacce alla prima linea di basso.
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Addio, appicciafuochi.